domenica 1 maggio 2016

Gian Piero Motti, "La storia dell'alpinismo", Priuli e Verlucca


 Gian Piero Motti era davvero un bel personaggio: nato a Torino nel 1946 (l’anno della morte di Giusto Gervasutti, “il fortissimo”, colui che trasportò nelle Alpi occidentali la perizia tecnica maturata nelle Dolomiti in anni di pratica dell’arrampicata artificiale), alpinista di vaglia in prima persona (diede buona prova di sé soprattutto sulle pareti della Valle dell’Orco), fu un uomo colto e dai molteplici interessi. Oggi lo si ricorda soprattutto come l’animatore del Nuovo mattino, il movimento che portò nel mondo chiuso dell’alpinismo molti degli stimoli derivanti dalla contestazione delle istituzioni tradizionali fra gli anni sessanta e settanta, e ne favorì l’uscita dalle secche di un’ideologia fondamentalmente reazionaria. Eternamente preda di un’irriducibile inquietudine, Motti si tolse la vita nel 1983, ad appena 37 anni.
 La sua Storia dell’alpinismo − pubblicata per la prima volta nel 1978 e recentemente riproposta con l’aggiornamento di Enrico Camanni riguardante gli sviluppi che questa disciplina ha conosciuto dopo quella data − è la seconda Storia di ampio respiro dedicata all’alpinismo mai scritta, dopo quella dell’inglese Claire-Eliane Engel, che però risale agli anni cinquanta del Novecento, parla esclusivamente dell’attività svoltasi nelle Alpi, ed è afflitta da una prospettiva smaccatamente “anglocentrica”.
 Anche il ponderoso volume di Motti (conta in tutto più di 700 pagine) risente naturalmente dei paradigmi culturali dell’epoca in cui fu concepito; e tuttavia, al netto di alcune considerazioni tecniche inevitabilmente datate, l’approccio dell’autore appare ancor oggi perfettamente funzionale a un discorso sull’alpinismo coerente, dotato di solide basi teoretiche, e nello stesso tempo capace di accogliere tutte le suggestioni avventurose e di far risaltare il profilo di tutti i personaggi straordinari che il racconto delle imprese alpinistiche da sempre porta con sé.
 Il rapporto tra l’uomo e la montagna è descritto sulla scorta di una visione della realtà che si vuole fondata soprattutto sui principi della teoria psicanalitica, ma che si nutre anche delle numerose e disparate letture di Gian Pietro Motti, in cui un ruolo di primo piano hanno senz’altro riflessioni di ordine antropologico, filosofico e sociologico.
 Così l’autore considera come è certamente vero che l’uomo cominciò a guardare alle montagne e a scalarle in epoca illuministica − una volta venuti meno i tabù e le false credenze che lo tenevano lontano dalle vette −, spinto principalmente da motivazioni di carattere scientifico; ma sostiene altresì che presto il piacere della scoperta, il brivido dell’avventura, il desiderio di conquista e il bisogno di libertà soppiantarono la scienza. Quest’ultima divenne sovente una semplice scusa per giustificare un’attività altrimenti priva di qualsiasi utilità materiale, e perciò scandalosa agli occhi di quella società borghese da cui provenivano i primi frequentatori delle montagne.

Un'immagine di Gian Piero Motti

 Ci fu infatti un’epoca in cui l’alpinismo fu appannaggio esclusivo dei cittadini benestanti; solo in seguito i “montanari” – cacciatori di camosci o cercatori di cristalli inizialmente utilizzati come semplici portatori o come “accompagnatori” da chi andava per monti (con un ruolo subalterno o ancillare rispetto a quello dell’alpinista di turno) − presero coscienza delle proprie capacità e, oltre a continuare a lavorare come guide al servizio dei cittadini, cominciarono a esplicare in proprio un’attività d’avanguardia di esplorazione delle cime e delle pareti dei rilievi fra i quali vivevano.
Si dovrà comunque attendere la fine della Grande guerra per vedere anche i ceti meno abbienti avvicinarsi definitivamente alle montagne, quando l’alpinismo divenne per molti – che fossero cittadini o valligiani – un mezzo di riscatto al cospetto delle miserie quotidiane.
 Solo a partire dal secondo dopoguerra, infine, si assistette a una specializzazione e a una sorta di professionalizzazione dell’attività alpinistica, dapprima con l’accesso al mestiere di guida di praticanti provenienti da zone urbane non montagnose, poi, in anni a noi più vicini, con l’avvento degli sponsor e (dagli anni settanta) con la trasformazione dell’alpinismo in una disciplina sportiva tout court, capace di suscitare perfino un grande interesse mediatico.
 In questo quadro evolutivo, l’aspetto più interessante del racconto di Motti è a mio parere l’articolata e problematica ricerca di un criterio di valutazione omogeneo delle molte celebri scalate effettuate in epoche diverse su terreni differenti da uomini che potevano contare sul supporto tecnico di materiali all’inizio semplicissimi e poi via via più sofisticati.
 In sostanza, Motti ritiene in fondo fallace ogni tentativo di classificare in maniera assolutamente oggettiva le difficoltà incontrate dagli alpinisti che effettuarono quelle imprese, perché “le vere difficoltà sono sempre di carattere psicologico”, e i primi salitori di una parete si trovano sempre a dover abbattere una “barriera” mentale con cui i ripetitori non dovranno più confrontarsi.
 Questo non vuol dire che le considerazioni prettamente tecniche vengano messe in secondo piano in questo libro; anzi Motti, da alpinista esperto qual era, non manca mai di prestare un’adeguata attenzione, oltre che alla filosofia che ispirò ciascuno scalatore, al suo stile, alla sua “creatività”, alla sua abilità su rocce di diverso tipo e su ghiaccio, alla capacità di servirsi in maniera adeguata degli strumenti che la tecnologia della sua epoca gli metteva a disposizione.
 In tal modo si riescono a inquadrare nella maniera migliore e senza pregiudizi le imprese sia dei cultori dell’arrampicata artificiale sia dei “puristi” difensori dell’arrampicata libera, individuando in ciascun ambito coloro che seppero eccellere nel filone che avevano scelto.
 Trovano così il giusto risalto i protagonisti delle diverse fasi dell’evoluzione della disciplina, che a volte vengono presentati come veri e propri miti in pagine assolutamente memorabili: da Coolidge a Whymper, da Georg Winkler a Tita Piaz (il celebre “diavolo delle dolomiti”), dal mitico Mummery ad Angelo Dibona, da Dülfer a Preuss, da Emil Solleder a Emilio Comici, da Gian Battista Vinatzer al grande Riccardo Cassin (“il risolutore”). E poi Giusto Gervasutti ("il Michelangelo dell'alpinismo"), Pierre Allain, Gaston Rébuffat, l’insuperabile Hermann Buhl, per arrivare fino a Walter Bonatti, a René Desmaison e a Reihold Messner (senza dimenticare i molti “eroi sconosciuti” che Motti non manca mai di richiamare).
 La lettura è piacevole, coinvolgente, interessante sia per gli appassionati di alpinismo, sia per coloro che guardano a questa pratica solo dall'esterno, con la curiosità dei profani. Facile è immedesimarsi nelle avventure che Motti racconta, facile commuoversi di fronte a talune figure scolpite dalle sue parole, dal giro delle sue frasi non sempre del tutto precise, ma ogni volta estremamente efficaci.

Voto: 7,5

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