domenica 11 settembre 2022

Alessandra Carati, "E poi saremo salvi", Mondadori


 Fra le tragedie umane collettive la guerra è la più sconvolgente per via della sua consustanziale assurdità, che rende particolarmente difficile dimenticare il dolore che causa, ricomporre i danni che provoca e trovare una formula efficace che ne scongiuri il ripetersi. Lo vediamo oggi con la voragine che si è aperta nel cuore dell'Europa in seguito all'aggressione russa all'Ucraina; quelli della mia generazione se ne resero conto trent'anni fa con evidenza ancora maggiore quando, poco lontano dai nostri confini, scoppiò il più bestiale dei conflitti, quello in cui si dissolse la Jugoslavia creata da Tito.
 Il romanzo di Alessandra Carati affonda le radici in quegli anni e in quegli orrori. La storia, raccontata in prima persona dalla protagonista, è quella di Aida, una ragazzina bosniaca che, quando i cetnici puntano sul suo villaggio costringendola ad una fuga precipitosa con la madre incinta, ha solo 6 anni. Compiendo un avventuroso percorso non privo di pericoli attraverso i territori dell'ormai ex Jugoslavia, madre e figlia approdano prima in Slovenia e poi in Italia, dove le attende il padre di Aida e dove comincerà per loro una nuova vita.
 Naturalmente il pensiero della patria, improvvisamente abbandonata e poi sconvolta dalla guerra a tal punto da risultare quasi irriconoscibile, continua a ossessionare i genitori di Aida; ma la ragazza, crescendo, matura sentimenti contraddittori nei confronti della sua identità bosniaca. La presenza di Emilia, un'italiana che diventa per lei quasi una seconda madre, favorisce il sorgere in Aida del desiderio di dimenticare tutto quanto è legato al suo vecchio Paese per costruirsi una nuova idea di sé, aderente alla terra che l'ha accolta e alla città, Milano, alla quale sente ormai di appartenere.
 Aida frequenterà il liceo classico e poi, grazie al sostegno di Emilia e di suo marito - che in sostanza decidono di adottarla - la facoltà di medicina. Ma la sua famiglia di origine resterà come un monito a ricordarle che c'è anche un'altra realtà al di là di quella, più facile, alla quale la giovane ha voluto consegnarsi tutta. 
 Sopratutto, in maniera un po' paradossale, a rammentare ad Aida da dove proviene è il fratello Ibro che, sebbene sia nato in Italia, appare radicato alla terra dei suoi avi molto più di lei: non solo ha imparato il bosniaco, infatti, ma sente anche su di sé tutto il disagio per le inaudite violenze delle quali il suo popolo è stato fatto oggetto, e dalle quali il Paese dei suoi genitori e dei suoi nonni è stato insanguinato.
 
Alessandra Carati
 
 Ibro, quasi sentendo su di sé il peso della storia irriferibile dalla quale proviene, cresce come un ragazzo estremamente problematico: incapace di autodisciplina e di concentrazione, non è in grado di tradurre le sue idubbie qualità in un rendimento scolastico anche solo sufficiente; e poi, con l'adolescenza comincia a essere disturbato da nevrosi che l'abuso di stupefacenti a un certo punto trasforma in una vera e propria psicosi, una sorta di malattia autoimmune di un anima intrisa di orrore.
 Il tentativo di curare Ibro grazie anche al supporto di una psichiatra - restia però a calarsi davvero nei drammi del ragazzo - diventa per Aida una vera e propria discesa agli inferi, che la costringerà a fare finalmente i conti, oltre che col buio che ottenebra la mente del fratello, anche con quello che ha ottenebrato tutta una fase della storia della sua patria d'origine.
 Ibro non sopravviverà ai propri drammi interiori, ma lascerà in eredità ad Aida la consapevolezza della necessità di ricucire il tessuto strappato della propria identità, della propria storia e di quelle dei suoi genitori.
 Il libro è bello, e trova nella sua linearità e nella semplicità della scrittura la condizione ideale per invitare a una riflessione su un frammento particolarmente indigesto della storia recente con cui non si sono fatti i conti in maniera definitiva, formulando una condanna irrevocabile del nazionalismo da cui tutto quel male ha avuto origine.
 L'ordinata scansione temporale del romanzo, poi, ci ricorda quanto poco lontani siano quegli eventi che la nostra coscienza tende a confinare in una dimensione remota, quasi a esorcizzarli.
 
In poche parole: fra le tragedie umane collettive, la guerra è la più sconvolgente per via della sua consustanziale assurdità, che rende particolarmente difficile dimenticare il dolore che causa, ricomporre i danni che provoca e trovare una formula efficace che ne scongiuri il ripetersi. Lo vediamo oggi con la voragine che si è aperta nel cuore dell'Europa in seguito all'aggressione russa all'Ucraina; quelli della mia generazione se ne resero conto trent'anni fa con evidenza ancora maggiore quando, poco lontano dai nostri confini, scoppiò il più bestiale dei conflitti, quello in cui si dissolse la Jugoslavia creata da Tito.
Il romanzo di Alessandra Carati affonda le radici in quegli anni e in quegli orrori. La storia, raccontata in prima persona dalla protagonista, è quella di Aida, una ragazzina bosniaca che, quando i cetnici puntano sul suo villaggio costringendola ad una fuga precipitosa con la madre incinta, ha solo 6 anni. Compiendo un avventuroso percorso non privo di pericoli attraverso i territori dell'ormai ex Jugoslavia, madre e figlia approdano prima in Slovenia e poi in Italia, dove le attende il padre di Aida e dove comincerà per loro una nuova vita.

Voto: 6,5

venerdì 19 agosto 2022

Mario Desiati, "Spatriati", Einaudi


 Cos'è uno "spatriato"? Nel dialetto di Martina Franca - ma più in generale nel gergo dell'autore - è un individuo irrisolto, spaesato, geograficamente, sentimentalmente e moralmente disperso o incapace di raggiungere il proprio centro di equilibrio.
 Il romanzo di Mario Desiati è pieno di persone così. Lo sono di certo i genitori del protagonista-narratore Francesco Veleno, Elisa Fortuna e Vincenzo Veleno, nel loro matrimonio segnato dall'incompatibilità reciproca, che porta lei a diventare l'amante di un medico dell'ospedale presso il quale presta servizio come infermiera (che è anche il padre di Claudia, la ragazza da cui Francesco è da sempre attratto), e lui (professore di educazione fisica nel locale liceo) un inconcludente ignavo, velleitario e frustrato.
 Lo sono poi tanti dei personaggi di contorno in cui ci si imbatte seguendo lo sviluppo della trama: da Etta, la madre di Caludia, dibattuta tra il suo perbenismo meridional-borghese, la rabbia per il tradimento del marito e il desiderio di rompere a sua volta le catene delle convenzioni sociali, all'avvocato Curcio, stagionato viveur, che prima si fidanza con Claudia e poi sposa sua madre rimasta vedova; dal georgiano Andria, con cui Francesco intreccia in Germania una irrisolta relazione omoerotica, alla ragazza madre Erika, con cui invece è Claudia a creare un legame complesso vissuto sul filo dell'ambiguità emotiva.  
 Ma lo sono soprattutto i due personaggi principali, Francesco stesso e Claudia Fanelli appunto, l'originale ragazza dai capelli rossi, figlia dell'amante della madre, di cui egli ancora studente si innamora, e che come una chimera rimane fino all'età adulta e alla maturità il suo sogno inappagato e il suo eterno tormento. Francesco è "sfuocato" nel suo affetto nei confronti della madre, la cui intensa femminilizzazione al momento della sua fuga d'amore con il dottor Fanelli lo spiazza; è sfuocato nel suo rapporto con la religione, che oscilla da una incorporazione acritica di tutto l'apparato simbolico del cattolicesimo, nell'illusione di una fede autentica (che porta il protagonista a pensare di farsi prete), a un declassamento delle tradizioni cristiane a puro folklore utile per supportare l'ipocrisia corrente; è sfuocato nella sua identità sessuale, interpretata con una fluidità un po' isterica, nella quale l'attrazione per gli uomini sembra quasi essere una reazione condizionata dalla frustrazione del desiderio continuamente inappagato nei confronti di Claudia.
 Claudia, dal canto suo, è l'emblema stesso dell'inafferrabilità, se non proprio dell'instabilità vera e propria: nel lavoro, negli affetti, nel modo stesso di apparire e di essere ella trascorre quasi senza soluzione di continuità da una versione di sé all'altra, forse alla ricerca di un assestamento che non trova mai, senza peraltro che la fedele dedizione - ma sarebbe meglio dire adorazione - di Francesco nei suoi confronti venga mai meno. Può essere così rampolla dell'altezzosa borghesia pugliese a Martina Franca, studentessa ingenua e vivace in cerca di nuove esperienze a Londra, giovane laureata in economia drogata di lavoro a Milano, professionista in crisi affascinata dalla cultura underground e alternativa a Berlino; e, nello stesso tempo, frivola adolescente attratta dai ragazzi più belli e superficiali, e poi fidanzata dell'attempato avvocato Curcio, e poi ragazza ormai matura che guarda al lesbismo senza preclusioni...
 
Mario Desiati

 Tutte queste figure e queste varie inclinazioni si incastonano in un impianto diegetico assai complesso e articolato, la cui caratteristica principale è quella di essere composto a mosaico: le singole tessere narrative formano un disegno univoco, ma tra l'una e l'altra c'è un piccolo spazio vuoto, una fessura che sottolinea il continuo shock emotivo del protagonista al cospetto dei piccoli salti di un destino che - senza che comporti sconvolgimenti apocalittici - egli non riesce a controllare e a prevedere, e che lo lascia sempre in qualche modo un po' spiazzato, in affanno, stupito.
 L'intenzione abbastanza scoperta dell'autore è quella di creare un vasto affresco generazionale, con al centro i trenta-quarantenni di oggi come attori principali della transizione da una mentalità tradizionale sclerotica e piena di difetti a una modernità in cui la sfida a ridefinire i parametri dell'identità individuale e le regole dei rapporti sociali non viene vinta completamente, e rischia di lasciare dietro di sé molti naufraghi, con una società in gran parte ancora non in grado di accettare nuovi modelli, e molti ex ragazzi privi di un centro di gravità permanente intorno al quale organizzare una personalità responsabile e definita.
 Il tema è molto interessante ma, nonostante il romanzo sia stato gratificato dalla vittoria del Premio Strega, ho l'impressione che l'obiettivo non venga pienamente raggiunto: da una parte per una ragione estrinseca rispetto alla sostanza del racconto, e cioè il fatto che le contraddizioni dei quarantenni di oggi sono molto più accentuate di quanto appaiano nel ritratto che di essi fa Desiati (e molto più forte è la loro dipensenza da logiche che affondano le loro radici nella mentalità tradizionale); dall'altra per una ragione strutturale, e cioè il fatto che l'impianto narrativo, nella seconda parte, tende a sfilacciarsi un po', a diventare talvolta poco conseguente, talvolta inutilmente ripetitivo.
 Così, un romanzo che inizia con un piglio veramente ammirevole, dando prova a tutti i livelli di un'efficacia espressiva rara e promettendo moltissimo, nel suo sviluppo perde progressivamente vigore fino a diventare assai meno convincente; quasi noioso, non esiterei a dire.
 
In poche parole:  Cos'è uno "spatriato"? Nel dialetto di Martina Franca - ma più in generale nel gergo dell'autore - è un individuo irrisolto, spaesato, geograficamente, sentimentalmente e moralmente disperso o incapace di raggiungere il proprio centro di equilibrio. Spatriati sono sicuramente i personaggi principali del libro, il protagonista-narratore Francesco Veleno e Claudia Fanelli, la ragazza di cui egli è innamorato fin dai tempi della scuola: emblemi di una intera generazione, quella dei quarantenni di oggi - specie quelli nati e cresciuti nell'Italia meridionale -, che cresce cercando di prendere le distanze dalla sclerotica mentalità tradizionale, di ridefinire i parametri dell'identità individuale e le regole dei rapporti sociali; e che non ci riesce del tutto, rimanendo, per così dire, a metà del guado.

Voto: 6,5

venerdì 29 luglio 2022

Claudio Piersanti, "Quel maledetto Vronskij", Rizzoli

 

 La gelosia altro non è, in fondo, che timore di vedere intimamente lacerata la propria identità; in questo senso la sua parentela con la paura della morte è strettissima. 
 Se ne rende conto, nella sua avventura coniugale con la splendida moglie Giulia, Giovanni, un piccolo tipografo di Milano, non particolarmente colto, non particolarmente intraprendente, non particolarmente brillante, e tuttavia sensibilissimo al cospetto dei sentimenti e dei turbamenti della donna, che ama teneramente e con la quale vorrebbe vivere quasi in simbiosi.
 Ma Giulia è stata malata, forse lo è ancora, e la malattia ha depositato dentro di lei aridità, solitudine e un senso di disperazione difficile da fronteggiare. 
 Una sera, tornado a casa dal suo laboratorio, Giovanni trova nella cucina della propria casa un biglietto con cui Giulia lo lascia e gli intima di non cercarla. Il pover'uomo si interroga su quella decisione inattesa senza riuscire a spiegarsela: che cosa l'ha spinta a questo passo? Il suo sguardo corre sugli scaffali della libreria della moglie, lettrice molto più solida e costante di lui, fino a cadere su un volume decisamente ponderoso, che le ha visto spesso fra le mani e che certamente ella amava:  Anna Karenina di Lev Tolstoj.
 Giovanni non ha mai letto il romanzo, ma ora pensa che proprio lì dentro ci possa essere il motivo segreto dell'abbandono che ha subito. Comincia allora a compulsarlo furiosamente, e poi a leggerene interi brani, entrandone a poco a poco nella trama; si sofferma in particolare sul personaggio di Vronskij, colui che porta via Anna a suo marito, e che egli vede come un fatuo bellimbusto indegno di stima.
 Ecco allora farsi strada in lui un'idea insidiosa e prepotente: Giulia gli è stata portata via da qualcuno capace di essere più attraente ai suoi occhi di quanto egli non sia mai stato; con ogni probabilità un volgare seduttore, ma armato di un fascino di cui Giovanni è totalmente sprovvisto. Vronskij assume a poco a poco nella mente di Giovanni una fisionomia mostruosa: è colui che, macchiatosi di ogni nefandezza, ha conquistato con l'inganno la sua donna, e ora la possiede furiosamente; Vronskij ride alle sue spalle; Vronskij è il nemico giurato che egli non sapeva di avere, ma che ha sempre tramato alle sue spalle.
 L'ossessione di Giovanni si sublima infine in un'impresa che ha a che fare con la sua abilità professionale: egli preparerà un'edizione preziosa di Anna Karenina in onore di Giulia perduta, ripercorrendo il testo parola per parola, in maniera tale che il rovello della gelosia scavi in profondità in lui fino a portare alla luce le sue colpe nascoste nei confronti della moglie.
 L'umore di Giovanni si fa sempre più cupo, anche in considerazione del fatto che gli amici gli riportano la notizia che Giulia è in città, sta bene, conduce una vita lontana da lui ma, evidentemente, non ha nessuna intenzione di rivederlo.
 Anche le donne che chi gli è più vicino tenta di presentagli non lo interessano; il pensidero di Giulia perduta lo occupa tutto e, sotto la superficie tranquilla della sua consueta urbanità, lo sconvolge completamente.
 
Claudio Piersanti
 
 
 Il fatto è che Giulia non si è allontanata per amore di un altro uomo; si è allontanata invece per paura di essere ghermita dalla morte, per timore della malattia che crede di continuare a covare in lei. In realtà voleva uccidersi, per far soffrire meno il suo Giovanni: aveva organizzato tutto, ma non ha avuto il coraggio di gettarsi sotto un treno, come la protagonista del romanzo di Tolstoj.
 Quando torna, molti mesi dopo la sua partenza da casa, confessa al marito la sua disperata debolezza, gli chiede di riprenderla con sé e dichiara la propria inermità di fronte alla morte. E Vronskij, lo spettro di Vronskij non scompare dalla vita dei due coniugi; si trasforma invece nell'ombra della morte, sempre incombente e minacciosa, sempre furtivamente presente come infausta ipotesi, tragica opzione futura.
 Molti anni vivranno ancora insieme Giovanni e Giulia, in armonia quasi perfetta, in invidiabile confidenza, in assoluto accordo.
 Eppure Vronskij, il maledetto Vronskij, alla fine inesorabilmente arriverà, a ghermire la preda che gli spetta di diritto, a spazzare via ogni traccia di felicità, che di sicuro c'è stata, ma che allora sembra poco più di un'illusione.
 Il mal d'amore per eccellenza, l'orrida gelosia, si trasforma così - tragicamente - in mal di morte, in invidia per l'eterno e per la letizia inscalfibile degli dei.
 Il libro, tutto impostato su uno stile narrativo pacato e su ritmi morbidi e isocroni, è decisamente bello; la sua linearità non impedisce di leggerlo con piacere e insieme con emozione. E poi, la trovata di trasfigurare un famosissimo e sommamente ambiguo personaggio letterario, trasformandolo nell'emblema di tutte le nostre peggiori paure, a mio parere, è strepitosa.
 
In poche patrole: il libro si basa sulla trovata strepitosa di trasfigurare uno dei personaggi letterari più conosciuti e dalla fama più dubbia, il Vronskij di Anna Karenina, trasformandolo nell'emblema di tutte le nostre peggiori paure. In fondo, la gelosia che all'azione di un personaggio come Vronskij è indissolubilmente legata, altro non è che il timore di vedere lacerata in modo irrimediabile la nostra identità; e non è questo che più ci spaventa, nella morte?
 
Voto: 7

sabato 9 luglio 2022

Veronica Raimo, "Niente di vero", Einaudi


 "Per me scrivere è essenzialmente questo. Scrivo cose ambigue e frustranti" afferma la voce narrante di questo strano romanzo autobiografico nell'ultima pagina del libro. Sicuramente è così: la lettera del testo, infatti, consta di una meticolosa, costante - e solo a tratti autoironica - negazione di quella fiducia nell'efficacia comunicativa della parola e nell'affidabilità della memoria da cui, in teoria, non può che partire la decisione di affidare alle stampe i propri personalissimi ricordi. 
 Ogni aneddoto e ogni morale che si pretende di trarne, in questo modo, subiscono uno scarto e una sfocatura che lasciano il dubbio che tutto venga rievocato con imponderabile approssimazione o, addirittura, inventato di sana pianta, e creano nel lettore la frustrazione data dall'inafferrabilità del dato reale.
 L'operazione appare tanto più spiazzante in quanto negli argomenti del libro sono riconoscibili le radici essenziali di ogni discorso identitario: la famiglia, la scuola, gli anni d'infanzia, gli amici, gli amori. Veronica (Verika per la madre, Oca per il padre, Veronika per se stessa quando sogna di diventare una rockstar) è una ragazza nata nel 1978, che cresce insieme ai genitori (madre insegnate, padre dirigente d'azienda) e al dotatissimo fratello maggiore in un appartamento non troppo grande nel quartiere romano di Rebibbia. 
 Nell'intento di permettere a ciascuno dei componenti del nucleo familiare di conservare la propria autonomia e di salvaguardare la propria privacy, il padre suddivide con dei tramezzi in cartongesso l'appartamento in una serie di microscopici stanzini, che trasformano la casa in una sorta di alveare dalle cui cellette è possibile origliare le pseudo-solitudini degli altri, interiorizzarne le nevrosi, abituarsi alle loro idiosincrasie. L'appantamento parcellizzato diventa un po' il simbolo dell'angustia delle relazioni familiari di Veronica: quella con la madre Francesca ansiosa e leggermente sessuofobica, ossessionata dai figli non avuti, capace di telefonare sempre nel momento meno opportuno; quella con il padre premuroso e collerico insieme, patofobico e malato di lavoro, famoso per la sua espressione deprecativa "siamo arrivati al paradosso"; quella con il fratello devoto e prodigiosamente intelligente, destinato a diventare un politico e uno scrittore.
 Lo stile con cui vengono ricostruiti numerosi episodi dell'infanzia, dell'adolescenza e della giovinezza, e alcuni snodi essenziali della vita della protagonista è contemporaneamente analitico e svagato, divagante e capzioso: si può passare dalle visite in Puglia a nonna Muccia alla scoperta del sesso, dalla morte del padre alla carriera scolastica di Veronica, dalle sue avventure con la storica amica Cecilia al sentimento religioso da cui vengono conquistati il fratello o il suo ex fidanzato.
 
Veronica Raimo
 
 Ciò che a poco a poco emerge con nettezza, però, è innanzitutto l'impossibilità di fissare quello che effettivamente è stato con assoluta certezza. Emblema di questo assioma è la constatazione che il falso diario concepito da ragazzina da Veronica per ingannare e tranquillizare sua madre (che - ella sapeva - di certo l'avrebbe letto di nascosto) sembra, riletto con gli occhi di oggi, più che plausibile: perfettamente, addirittura sentimentalmente attendibile.
 L'elaborazione di questa analisi pessimistica della fenomenologia del ricordo, della sua sedimentazione emotiva e del suo recupero appare estremamente interessante; quello che, però, personalmente mi lascia perplesso è il fatto che essa venga perseguita senza il benché minimo interesse per il tentativo di avvicinarsi il più possibile alla verità di ciò che è stato, così da costituire un terreno comune sul quale provare quantomeno a confrontarsi sulla percezione del passato con chi ci sta vicino. Al contrario, mi sembra che si ostenti una sorta di compiaciuta eccentricità, un soslipsismo estetizzante, che evidentemente si ritiene possa nobilitare il sostanziale disinteresse per punti di vista diversi dal nostro. Certe sinuosità stilistiche, certe ricercate immagini, così, più che impreziosire il dettato acuendo la sua acribia analitica, finiscono per esaltarne la piega narcisistica. Temo che tutto questo configuri un modo di apparire alternativi e anticonformisti un po' troppo a buon mercato.
 
In poche parole: "Per me scrivere è essenzialmente questo. Scrivo cose ambigue e frustranti" afferma la voce narrante di questo strano romanzo autobiografico nell'ultima pagina del libro. Sicuramente è così: la lettera del testo, infatti, consta di una meticolosa, costante - e solo a tratti autoironica - negazione di quella fiducia nell'efficacia comunicativa della parola e nell'affidabilità della memoria da cui, in teoria, non può che partire la decisione di affidare alle stampe i propri personalissimi ricordi. 
Ogni aneddoto e ogni morale che si pretende di trarne, in questo modo, subiscono uno scarto e una sfocatura che lasciano il dubbio che tutto venga rievocato con imponderabile approssimazione o, addirittura, inventato di sana pianta, e creano nel lettore la frustrazione data dall'inafferrabilità del dato reale.
L'operazione appare tanto più spiazzante in quanto negli argomenti del libro sono riconoscibili le radici essenziali di ogni discorso identitario: la famiglia, la scuola, gli anni d'infanzia, gli amici, gli amori. 
L'elaborazione di questa analisi pessimistica della fenomenologia del ricordo, della sua sedimentazione emotiva e del suo recupero appare estremamente interessante; quello che, però, personalmente mi lascia perplesso è il fatto che essa venga perseguita senza il benché minimo interesse per il tentativo di avvicinarsi il più possibile alla verità di ciò che è stato, così da costituire un terreno comune sul quale provare quantomeno a confrontarsi sulla percezione del passato con chi ci sta vicino.

Voto: 6,5

mercoledì 29 giugno 2022

Marco Amerighi, "Randagi", Bollati Boringhieri


 Ponderoso romanzo generazionale ambientato a Pisa all'inizio degli anni 2000, Randagi racconta gli anni della formazione di Pietro Benati, che cresce cercando la sua strada all'ombra del fratello maggiore, Tommaso detto T - più dotato di lui in tutto -, e con la paura di soffrire delle stesse battute d'arresto che hanno reso avventurosa, ambigua, amara e miserabile l'esitenza del nonno e del padre: il primo, Furio, dato per disperso in Abissinia durante la guerra del 1936, si è lasciato alle spalle in terra d'Africa una figlia illegittima avuta da un'indigena; il secondo, Berto, con Pietro ancora bambino, nel 1988 è sparito misteriosamente per ben quattro settimane, inghiottito da uno dei suoi loschi traffici, per ricomparire poi in perfetta forma ma privo del dito mignolo della mano destra, guadagnandosi così il soprannome di Mutilo.
 Se, nei confronti del nonno, Pietro prova un sentimento di pietà mista a perplessità, verso il padre il protagonista sviluppa una vera e propria idiosincrasia, che diventa odio conclamato quando Berto finisce in carcere per una truffa, gettando discredito e vergogna su tutta la sua famiglia. 
 Unico suo faro negli anni difficili dell'adolescenza è T, diventato ricercatore universitario negli Usa dopo aver dovuto abbandonare una promettente carriera da calciatore (impreziosita dal debutto in serie A nelle file della squadra del Pisa) a causa di un infortunio casualmente provocato proprio dalla goffaggine di Pietro durante una seduta di pesca notturna sugli scogli. 
 Via via sempre più forte, però, è l'esigenza di Pietro di smarcarsi da T, perseguita dapprima attraverso l'amore per la musica e la chitarra classica, coltivati con l'obiettivo inverosimile di diventare il miglior chitarrista al mondo; poi, dopo una serie di frustranti esperienze da musicista in erba e un provino sostenuto e fallito a Londra con la star del flamenco Paco de Lucia, attraverso gli studi di filologia e letteratura ispanica.
 Sono proprio gli studi a portare Pietro a Madrid, per un anno di Erasmus, affrontato con una cupa concentrazione sui propri obiettivi accademici che stride con la propensione spensierata, ludica e voluttuaria della maggior parte dei suoi compagni impegnati nella stessa esperienza.  
 Tuttavia, a Madrid, nei giorni convulsi degli sconvolgenti attentati terroristici alla stazione ferroviaria di Atocha, Pietro conosce due persone destinate ad avere un peso decisivo nell'economia dei suoi affetti negli anni a venire: l'ex surfista francese Laurent, suo coinquilino, e l'affascinante Dora, una scostante ragazza italo-spagnola la cui scontrosità maschera un disagio esistenziale che, dopo il suicidio del padre, non è mai riuscita a superare.
 Innamoratosi di Dora, che sembra però tenerlo a distanza e nei confronti della quale concepisce un vero e proprio inferiority complex, Pietro comincia un percorso di maturazione estremamente tortuoso, il cui snodo principale è la tragica morte del fratello T, alla vigilia delle nozze, in un terribile incidente stradale.
 
Marco Amerighi
 
 Ferito egli stesso in modo estremamente serio, il protagonista impiegherà mesi a fare pace con la propria sorte, con il padre (proprio alla vigilia della morte del Mutilo) e con il mondo intero; decisiva sarà l'assunzione della consapevolezza che le fragilità di tutti coloro che gli sono attorno, e che egli ha sempre considerato dotati di una autostima e di una sicurezza superiori (primo fra tutti Laurent), non sono diverse dalle sue.
 La stessa Dora, che Pietro ha sempre guardato come una sorta di miraggio inafferrabile, si dimostra tutt'altro che fuori dalla sua portata, specialmente dopo che un esaurimento nervoso l'ha costretta al ricovero in una struttura per la cura del disagio psichico.
 Il libro può contare su una distesa vena narrativa, e finisce per essere una miniera inesauribile di situazioni e aneddoti che incrociano il disorientamento di una generazione - quella dei ventenni dell'inizio del XXI secolo - priva di incontestabili parole d'ordine morali e filosofiche, orfana di solidi punti di riferimento gnoseologici, costantemente esposta alla sensazione di una vaga minaccia incombente. Del resto, fu in quegli anni che si insinuò nella mentalità occidentale la cosiddetta "retorica del declino", alimentata dai dubbi sulla bontà del modello di sviluppo ciecamente perseguito fino a quel momento, dal crescere della pressione migratoria sull'Europa e dalle incertezze di un periodo storico funestato dagli attentati terroristici di matrice islamica. 
 E' come se il tenore del romanzo assecondasse questo stato emotivo e lo declinasse in quell'oscillazione tra pretenziosità e spaesamento che caratterizza il protagonista e i suoi amici. E tuttavia alla sostanza del testo manca qualcosa perché questa storia possa risultare davvero rappresentativa di un'epoca e della sua atmosfera dominante: sembra quasi che la forza del racconto si disperda nel compiaciuto resoconto di una serie di situazioni a cui si vuole ostentatamente attribuire un rilievo emblematico ma che restano spesso fini a se stesse; e, nello stesso tempo, che la vicenda principale non acquisisca mai quell'amalgama capace di accendere l'immaginazione del lettore e di entrare in sisonanza con la sua coscienza e la sua memoria.
 La lingua del romanzo, poi, scorrevole e resa più concreta dall'utilizzo di alcuni significativi toscanismi, fatica a trasformarsi in quel sottile strumento analitico della realtà che un'opera come questa - senz'altro ambiziosa nella sua concezione di fondo - richiederebbe.  
 
In poche parole: ponderoso romanzo generazionale ambientato a Pisa all'inizio degli anni 2000, Randagi racconta gli anni della formazione di Pietro Benati, che cresce cercando la sua strada all'ombra del fratello maggiore, Tommaso detto T - più dotato di lui in tutto -, e con la paura di soffrire delle stesse battute d'arresto che hanno reso avventurosa, ambigua, amara e miserabile l'esitenza del nonno e del padre. Il libro può contare su una distesa vena narrativa, e finisce per essere una miniera inesauribile di situazioni e aneddoti che incrociano il disorientamento di una generazione - quella dei ventenni dell'inizio del XXI secolo - priva di incontestabili parole d'ordine morali e filosofiche, orfana di solidi punti di riferimento gnoseologici, costantemente esposta alla sensazione di una vaga minaccia incombente. Del resto, fu in quegli anni che si insinuò nella mentalità occidentale la cosiddetta "retorica del declino", alimentata dai dubbi sulla bontà del modello di sviluppo ciecamente perseguito fino a quel momento, dal crescere della pressione migratoria sull'Europa e dalle incertezze di un periodo storico funestato dagli attentati terroristici di matrice islamica. 
Anche se, alla fine, alla sostanza letteraria del testo manca forse qualcosa perché questa storia possa diventare veramente rappresentativa di un'epoca e della sua atmosfera dominante.

Voto: 6
  

sabato 11 giugno 2022

Jana Karsaiova, "Divorzio di velluto", Feltrinelli


 Bratislava, dicembre 2005: Katarina è una ragazza slovacca di 27 anni, laureata in lingua e letteratura italiana, che è tornata a casa a passare il Natale con i genitori. Rivedere le strade, i palazzi, i locali della sua città, in cui è stata bambina e adolescente, e attraverso l'ottica della quale ha vissuto tutti i profondi cambiamenti che hanno investito il suo Paese all'inizio degli anni novanta (lo sgretolarsi del regime socialista cecoslovacco prima e la scissione fra Repubblica Ceca e Slovacchia poi), la riempie di una malinconia dolceamara.
 I motivi di questo contrastato sentimento sono molteplici: Katarina, che ora - dopo il matrimonio con il ceco Eugen - vive a Praga, dove tiene un corso di italiano all'Università, rimpiange l'equilibrio che aveva trovato negli anni del liceo e dell'università, quando lo studio appassionato della lingua italiana - utilizzata come un gergo per iniziati - le permetteva, insieme al suo piccolo gruppo di compagne di scuola e amiche, di neutralizzare l'asprezza invadente dell'insorgente nazionalismo slovacco e, nel contempo, di coltivare sobriamente il senso della propria appartenenza nazionale senza dare peso al provinciale disprezzo dei cechi verso gli ex compatrioti. 
 Ora quell'equilibrio è rotto: Katarina, a Praga, è la "moglie slovacca" di Eugen, e deve spesso sorbirsi il greve umorismo degli amici del marito sulla goffaggine dei suoi connazionali, e il gruppo delle sue amiche italianiste si è disperso: qualcuna è diventata mamma, qualcun'altra ha abbandonato lo studio della lingua di Dante, mentre Viera, l'amica del cuore e principale confidente di Katarina, si è trasferita in Italia, all'Università di Verona, dopo avere vinto una borsa di studio.
 La vittoria della borsa di studio è stata motivo di attrito tra Viera e Katarina, che sospetta che l'amica abbia ricevuto una dritta per aggiudicarsi il bando da Barbara D'Angelo, la loro ammiratissima professoressa di italiano, con cui Viera aveva iniziato una segreta relazione omoerotica.
 Ci sono però anche altre due ragioni per le quali Katarina annega nella malinconia: una è la profonda crisi che sta attraversando il suo matrimonio con Eugen, che da alcune settimane ha abbandonato la loro casa per una "pausa di riflessione", e che in realtà ha forse già un'altra donna. L'altra è la lontananza della sorella maggiore Dora - da sempre un punto di riferimento per Katarina - che sette anni prima si è trasferita negli Stati Uniti dopo aver tagliato i ponti con la famiglia di origine, e che da alcuni mesi ha smesso anche di inviare le laconiche email con cui dava telegraficamente a Katarina notizie di sé.
 La crisi con Eugen viene da lontano; infatti, non è che l'uomo fosse sempre presente per la moglie, prima della separazione: il lavoro lo portava spesso a Londra, e d'altra parte non erano mancati contrasti nel rapporto di Katarina con la famiglia di lui, molto benestante, molto borghese, molto praghese, assai lontana dalle radici culturali della ragazza; ma fra i due giovani c'era un amore autentico e reciproco, e Katarina sentiva la sicurezza di essere stata scelta da Eugen in piena autonomia.
 Il silenzio di Dora, invece, è come se sottraesse a Katarina una parte di sé: il suo sguardo e la sua felicità semplice di bambina, la sensazione di sentirsi protetta anche quando i genitori non la capivano o non si dimostravano all'altezza del proprio compito.
 
Jana Karsaiova
 
  In più, nei giorni in cui si svolge la storia, è come se la placidità del Natale facesse venire a galla tutte le questioni irrisolte fra la protagonista e la sua famiglia: la vena polemica e perbenistica della madre, che sembra sempre rimproverare alle figlie femmine di non essersi volute adeguare al modello di donna tradizionale da lei rappresentato; l'inettitudine del padre, ex professore di Storia in un istituto tecnico, incapace di superare il trauma del crollo del Socialismo reale, maldestro nel cercare di nascondere la sua predilezione per la figlia Dora, incline ad affogare le sue delusioni nell'alcol.
 Solo il ritrovamento di Viera e il riaccendersi dell'antica confidenza fra le due amiche sembra offrire a Katarina un appiglio per uscire dal pantano in cui si sente sprofondare. Viera le racconta la sua esperienza bella ma non facile dell'Italia e la sua tormentata relazione con la D'Angelo, e ascolta da Katarina la storia del lento spegnersi del suo amore con Eugen. L'affiatamento riscoperto è tale che Viera invita Katarina a passare il Capodanno con lei in Italia.
 La vacanza italiana di Katarina, conclusa dalla tragica notizia della morte di un amico comune suo e di Eugen, convincerà la protagonista della necessità di prendere atto - dolorosamente ma coraggiosamente - della fine ineluttabile della sua storia con Eugen con tutta la dignità e il buon senso possibili, per riprendere in mano la sua vita, ricucire i fili spezzati di tutti i suoi affetti antichi e accettare di aprirsi fiduciosa al mondo, come anche il suo Paese dovrebbe fare.
 Il suo sarà insomma un "divorzio di velluto", un trauma attutito capace di proiettarla verso un futuro complicato e affascinante, esattamente come la rivoluzione dalla quale la sua patria è nata.
 Il romanzo è interessante, perché come pochi riesce a sposare la grande storia - ancora piuttosto recente - della fine del Comunismo nei Paesi dell'est, e la storia particolare ed esemplare di una ragazza la cui adolescenza e giovinezza sono state anche frutto di quell'evento epocale e che, sulla scorta di quel bagaglio culturale, si trova ad affrontare le sfide e i problemi dell'età adulta.   
 Lo stile è semplice e piacevole, e la narrazione in terza persona risulta perfettamente funzionale tanto a quei mutamenti del punto di vista che consentono di spostarsi da un luogo a un altro o da una situazione a un'altra, quanto al bisogno di frapporre al racconto quelle precisazioni didascaliche talvolta necessarie in un'opera così articolata.
 Manca forse solo quel guizzo che rende un libro capace di "salarti il sangue".

In poche parole: Katarina è una ragazza di Bratislava, divenuta una studiosa di lingua e letteratura italiana che, cresciuta negli anni del crollo del Socialismo Reale e della dissoluzione della Cecoslovacchia, nel cuore degli anni Duemila vive i propri problemi di adulta sulla scorta del bagaglio culturale che quel trauma attutito e, insieme, l'amore coltivato sui libri nei confronti del nostro Paese le hanno lasciato. Il libro vive di fascinazioni sottili e di intriganti cortocircuiti: è bello, si legge tutto d'un fiato e offre uno sguardo sull'Italia e sugli italiani decisamente diverso da quelli a cui siamo abituati; anche se, forse, non è capace di quel guizzo tipico delle opere che sanno "salare il sangue" al lettore. 
 
Voto: 6,5

domenica 5 giugno 2022

Veronica Galletta, "Nina sull'argine", Minimum Fax

 

  Caterina Formica è una giovane donna che vive a Milano e lavora come ingegnere presso un ente pubblico che si occupa di contrastare il dissesto idrogeologico in tutto il Nord Italia. Per la sua ottima preparazione, la sua precisione e il suo rigore professionale e morale è sempre stata ritenuta idonea, dai dirigenti del suo ufficio, a occuparsi di questioni teoriche e dell'elaborazione di progetti di massima; meno alla pratica concreta della gestione sul campo dei cantieri che all'ufficio fanno capo.
 Quando però un'inchiesta della magistratura porta in carcere con l'accusa di corruzione gran parte dei suoi colleghi più considerati, Caterina si trova catapultata improvvisamente in prima linea, a seguire in qualità di Direttore dei lavori un'opera particolarmente difficile che nessuno vuole sobbarcarsi: la costruzione di un grande argine - e delle strutture annesse - lungo un fiume (verosimilmente la Dora Baltea) responsabile di alluvioni disastrose per la frazione di Spina, nel comune di Fulchré, nel canavese, non lontano dal lago di Viverone.
 I lavori  per la costruzione dell'argine abbracciano un anno intero - fra l'estate del 2005 e quella del 2006 - e coincidono con un periodo particolarmente delicato della vita di Caterina, che è stata  da poco abbandonata da Pietro, suo storico fidanzato, ed è spesso preda di quella sensazione di profondo disorientamento, al limite del disagio psichico, che già ha sperimentato durante alcune fasi della sua carriera universitaria.
 L'opera ingegneristica finisce così per diventare quasi una metafora di una necessaria ristrutturazione della personalità della protagonista, capace di regolare le piene impetuose della sua emotività e di convogliare e contenere le sue aspirazioni, i suoi sogni, i suoi progetti e i suoi sentimenti entro l'alveo di una consapevole fedeltà a se stessa e al suo modo di essere.
 Nello stesso tempo, concretamente, Nina (questo il diminutivo affettuoso con cui è sempre stata chiamata in famiglia Caterina) impiega nella direzione del cantiere tutte le proprie energie, aggrappandosi alle solide competenze accumulate negli anni degli studi, superando con pazienza e forza di volontà le sue paure, imparando a smussare gli spigoli del suo carattere a contatto diretto con tutti i professionisti, gli attivisti, i politici con cui è chiamata a collaborare, e anche con i fantasmi che le suggestioni della sua fervida fantasia le presentano di volta in volta.
 Così, la protagonista deve abituarsi ad avere a che fare con Bernini, geometra dall'apprezzabile professionalità e dalla dedizione quasi calvinista al lavoro, ma dalla mentalità vagamente misogina, che lo porta a sentirsi a disagio quando deve rendere conto del suo operato a un ingegnere donna; deve dare retta all'Assessore, persona gentile, dall'indole accomodante e dotata di una notevole conoscenza del proprio territorio, ma talvolta un po' troppo evasiva, tendente a stornare i problemi portando sempre il discorso sul suo amore per la buona cucina; è costretta a confrontarsi con il signor Musso, ex medico condotto, estremista dell'ambientalismo, che vede qualsiasi intervento sul letto del fiume come un'indebita interferenza dell'uomo in un contesto naturalistico di cui la flora e la fauna locali dovrebbero essere gli unici padroni; è chiamata a imparare a sopportare Lovecchio, funzionario della Provincia, incarnazione del grigiore burocratico; deve blandire la signora Bola, l'unica proprietaria che ostinatamente si rifiuta di vendere la porzione del proprio terreno necessaria al rafforzamento delle difese di sponda dell'argine.
 
Veronica Galletta
 
 Contemporaneamente, però, nei momenti in cui rimane sola a contemplare l'avanzamento dei lavori nella campagna eporediese, la sera, quando tutti se ne sono andati, Caterina intavola un dialogo segreto con un anziano operaio, che si palesa sempre laddove non dovrebbe essere, e indossa una vecchia felpa con il logo di Italia 90 e un gilet da pescatore pieno di tasche; un operaio singolarmente esperto, che forse è solo un fantasma, perché ricorda tanto Antonio Belfiore - siciliano come Nina - morto 15 anni prima proprio durante i precedenti lavori di sistemazione dell'argine, a pochi giorni di distanza dal suo amico Ferdinando Bola, marito della proprietaria riluttante alla vendita.
 Antonio - la fantasia di Antonio -, con la sua dolcezza e il suo buon senso fuori dal tempo, trasfigura magicamente la realtà della vita di cantiere, delle piccole gioie che sa regalare e dei suoi ordinari squallori, e aiuta Caterina a entrare in contatto con il proprio sentire più autentico, con le motivazioni profonde che l'hanno condotta a compiere studi ingegneristici, con l'amore per il proprio mestiere e per il lavoro ben fatto: la conduce a trovare il proprio equilibrio, insomma.
 E il sintomo dell'equilibrio ritrovato, dopo un anno di lavoro intenso - alla chiusura del cantiere dopo il collaudo dei manufatti - è per Caterina proprio la mancata apparizione di Antonio: la storia antica degli operai morti (numi tutelari dell'argine del fiume) le ha infine insegnato a fare pace coi vivi.
 Il libro è appassionante e davvero molto ben scritto: la scelta di sposare rigorosamente lungo tutto l'arco della narrazione il punto di vista della protagonista, quella di utilizzare la terza persona e quella di adottare il tempo presente concorrono nel modellare un racconto che riesce a indurre nel lettore una piena partecipazione alla storia narrata e a favorire nel contempo una presa di distanza critica dal personaggio di Caterina e dalle vicende che lo riguardano.
 Inoltre questo è un romanzo che non ha timore di parlare del lavoro - del lavoro manuale - con un linguaggio tecnicamente appropriato e una notevole originalità di approccio; ed è bello che più numerosi di un tempo siano i libri che, ponedosi nel solco del Primo Levi di La chiave a stella e del Paolo Volponi di Memoriale (esplicitamente citati nel libro, insieme ad altri scrittori di riferimento per l'autrice quali Italo Calvino e Michele Mari), lo sappiano fare offrendo narrazioni vere, sostanziose e appassionanti.
 Infine, assolutamente rimarchevole è il fatto che la protagonista del libro sia una donna che svolge un mestiere - nell'ambito delle discipline definite, con acronimo inglese, STEM - ancora oggi considerato da troppi, chissà perché, poco femminile.

In poche parole: Caterina Formica, giovane ingegnere alle prese con il complesso cantiere per la costruzione di un argine imponente lungo un corso d'acqua nel Canavese - volto a scongiurare le disastrose alluvioni che si fanno di anno in anno più frequenti nella zona - si rende conto a poco a poco di come l'opera che dirige, e che la mette a dura prova, sia in un certo senso l'emblema dell'impegno e della resistenza a lei necessari affinché il corso della sua stessa vita non abbandoni l'alveo naturale entro il quale ella ha cercato sempre di mantenerlo con tutta la sua buona volontà, a dispetto degli ostacoli e delle disavventure disseminate lungo il suo cammino, e dei fantasmi e delle paure che popolano la sua mente.
Il romanzo è appassionante e molto ben scritto: il fatto che il libro parli di lavoro, e che la protagonista sia una donna che svolge un mestiere di tipo tecnico (descritto con grande precisione e dovizia di particolari) basterebbero di per sé a farlo apparire notevole nel panorama della nostra letteratura contemporanea; a renderlo ancora più interessante è però la raffinata tessitura narrativa, che riesce a guidare con sicurezza il lettore entro un mondo che non necessariamente gli è familiare, senza rinunciare a stimolare di continuo la sua coscienza critica. 
 
Voto: 7,5